Questo articolo è stato pubblicato sul numero 25 di Vanity Fair Italia in edicola fino al 22 giugno 2021.
La prima volta che ha postato una foto di se stesso incinto (sì, incinto, al maschile), il commento più delicato che ha ricevuto è stato l’augurio di perdere il bambino. A ogni successiva foto di lui con il pancione, l’onda d’odio è montata così alta da spingerlo ad assumere cinque dipendenti dediti esclusivamente al monitoraggio delle sue conversazioni online. L’alternativa, scomparire dalla Rete e possibilmente dal mondo, Danny Wakefield non l’ha nemmeno contemplata: «Ho il dovere di essere visibile, perché soltanto così la gente può capire che noi trans siamo persone come tutte le altre. E che anche noi meritiamo una famiglia».
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Nato Danielle, 35 anni fa, nella provincia rurale del Wisconsin, cresciuto tra i rovi del bullismo e degli abusi, oggi Wakefield vive sereno in una fattoria in mezzo al bosco a 30 minuti da Seattle. A fargli compagnia, la natura, gli animali e Wilder Lea naturalmente, il bambino il cui sesso biologico non è dato sapere, che sei mesi fa ha reso Danny un membro della comunità dei «cavallucci marini»: persone trans che scelgono di portare avanti una gravidanza con il proprio corpo, del quale hanno conservato l’apparato riproduttivo femminile. Esattamente come gli ippocampi, forse l’unica tra le specie animali in cui sono i maschi a covare le uova.
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Una laurea in Scienze dell’educazione, un passato da «tato» a domicilio presso famiglie facoltose, un presente come social media activist in favore della comunità Lgbtq+ e apprendista doula (una figura assistenziale non sanitaria che accompagna le partorienti durante la gravidanza e il post partum), Danny si presenta su Zoom con barba, cappellino da baseball, T-shirt verde che, come una foglia, fa da letto a Wilder Lea che, per un’ora di intervista, sonnecchia spalmato sulla spalla del papà.
Questo bambino le ha cambiato la vita.
«Me l’ha salvata. La mia non è stata una gravidanza premeditata. Wilder è stato concepito in un momento in cui stavo cercando di farmi del male. Ma, da quando ho saputo che c’era, ho imparato a volermi bene, come non avevo mai fatto. Ho persino fatto pace con il mio corpo».
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In che senso?
«Non mi sono mai sentito a mio agio. Da piccolo non ho mai pensato: voglio essere un maschio. Mi chiedevo: chissà come sarebbe se fossi maschio. Oppure: mi piacerebbe stare in fila con loro e non con le femmine. In seconda media ho fatto coming out: pensavo di essere lesbica. Avevo una fidanzata, mi piacevano le ragazze, ma ero confuso».
Quando ha capito di non sentirsi donna?
«A 23 anni ho visto un video su YouTube di una persona che stava effettuando una transizione. Qualcosa nel mio cervello ha fatto click. Tre mesi dopo ho cominciato a prendere il testosterone».
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È stato difficile dirlo ai suoi genitori?
«Per niente. Prima dell’operazione avevo un seno prosperoso, a un certo punto ho cominciato a fasciarlo. Un giorno mi sono presentato a casa con il petto appiattito e mia mamma ha chiesto: che succede? Le ho risposto semplicemente: è così che mi sento. Lei ha subito capito, mi ha detto: be’, preferisco vedere mio figlio sbocciare, piuttosto che vedere mia figlia morire. All’inizio, però, aveva paura per me: la società è contro di te, mi ripeteva».
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Oggi che cosa vorrebbe dire a quel bambino?
«Vorrei dirgli che lui va bene così com’è, e che non importa quello che la gente penserà di lui. Vorrei dirgli di stare tranquillo: la vita diventerà molto dura per un po’, ma se saprà lottare, se saprà aspettare, poi arriverà la grande bellezza».
E’ felice?
«Come non lo sono mai stato. Ho sofferto di depressione post partum e tutt’oggi combatto contro attacchi di ansia e momenti di down, ma niente batte un sorriso di Wilder. Tra l’altro, ansia e depressione sono mie vecchie compagne di vita, forse sto finalmente imparando a gestirle».
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 25 di Vanity Fair Italia in edicola fino al 22 giugno 2021.