Proviamo anche con Dio, non si sa mai: «Come dice Bertrand Russell, lui è così immenso che non si può nominare, ma a qualcosa devo pur credere e di raccogliermi ogni tanto ho bisogno anche io. Prego Gesù, mi attacco a lui». L’ iconica Ornella Vanoni ha rilasciato un’intervista a Vanity Fair senza censure dove racconta della depressione, dell’amore per la musica e di quando la “etichettavano” come lesbica…
I decenni la situano nello stesso luogo che occupa con baldanza fin dal ’58: «A me piace stare sul palco, mi è sempre piaciuto. Ma adesso che la paura se ne è andata ed è rimasta soltanto l’emozione, finalmente me la godo. Io e i miei musicisti ridiamo tantissimo e rideremo anche a Sanremo. Ci vado volentieri, è una buona occasione e porto in gara una canzone molto bella e adulta. Però poi di vincere il Festival, dico la verità, non me ne può fregar di meno».
Lei è mai stata depressa?
«Ho avuto tre depressioni pazzesche, ho perso tanti capelli, in testa prima avevo una criniera, altroché».
Fare musica l’ha rassicurata?
«Mi ha resa molto più inquieta. Debuttai seguendo un’intuizione di Strehler e interpretando per la prima volta le canzoni della mala senza mai aver cantato prima. Poi feci teatro. Quando mi sposai, mio marito (Lucio Ardenzi, ndr) mi fece recitare L’idiota di Achard».
La monogamia è un’illusione?
«Dipende dalla curiosità. Se sei curiosa e sensuale, la monogamia dura un po’ di anni e poi dopo non dura più. La monogamia è difficile. Le mie storie sono durate sempre poco, anche per il mestiere che facevo. Bardotti, il mio produttore, un genio, aveva ragione. Mi rimproverava perché sceglievo come compagni avvocati e commercialisti: “Non ti capiranno mai, le persone curiose volano alte, quelle poco curiose camminano”».
E lei perché li aveva scelti?
«Mi ero illusa che mi dessero una vita più serena. In realtà era sempre una vita del cavolo. Non capivano i nervosismi, le fatiche, le ansie. Non condividevano un cazzo, quelli lì».
«Se fossi stata più onesta», disse, «avrei detto a mio marito che amavo ancora Gino Paoli e non l’avrei sposato».
«Avrei anche voluto, ma c’era un problema: Gino era sposato. È stato un casino, un amore molto travagliato e forse ho amato Paoli così tanto proprio per questo. Non lo possedevo, non lo avevo. Quando non hai una persona sei portato a credere che l’amore più grande sia quello che ti fa soffrire di più. E invece, cazzo, dovrebbe essere il contrario. Dovresti amare chi ti rende felice».
C’è una vena masochistica nell’amore?
«Tutte le donne hanno una leggera vena masochistica. L’uomo se ne va, la donna invece trascina il rapporto sperando che tutto si sistemi. Ma quando una cosa si rompe, si rompe e quando si incolla, si vedono le crepe».
Lei e Paoli eravate una frattura vivente.
«Con quel maglione nero e quella voce, Gino era una personalità particolare. Io non ne parliamo. “Quella lì è la cantante della mala che porta sfiga”, dicevano di me, “e poi è pure lesbica”».
E di lui che cosa dicevano?
«Le stesse cose o quasi. “Quello lì è gay”. Anzi, è recchia, invertito, frocio. Che in fondo è anche una parola più onesta, perché gay presuppone un’allegria di base che Gino non aveva e perché in certi giorni girano le balle anche ai gay».
Mai stata attratta da una donna?
«Ho avuto attrazione per qualche ragazza, certo. Fascinazione e curiosità. Una mia amica sostiene che la mia parte maschile sia frocia. Se passa una bella donna dico “che bella”, se passa un bell’uomo dico “che fico”. Non ha torto».
Torniamo a Paoli. Gino è di indole cupa?
«Suo figlio Tommaso dice che ci sono delle mattine in cui non si sa se non trovi il dentifricio o se è morto qualcuno. Sa qual è la fortuna di Gino? Aver trovato Paola, sua moglie. L’ha voluto e se l’è tenuto. Lei è allegra e ha due palle così. Ci sentiamo spesso. L’ultima volta ho rimproverato Gino per interposta persona: “Paola, guarda che se Gino continua a dire che sono una brava donna purtroppo insopportabile, lo cito per danni”».
Lei porta rancore?
«Ho avuto un’ultima storia d’amore con un ingrato che mi ha ferita. Ora sono felicemente sola, ma un pelo di fastidio, quando ci penso, ce l’ho ancora. Se quello va sotto un tram magari mi dispiace, però meglio».
Meglio?
«Ho sempre esigiuto rispetto. Si dice esigiuto, no? Oppure si dice esigito? Spero di no. Mamma mia che brutte parole, che schifo, esigiuto, esigito. Comunque ho sempre preteso rispetto, in amore e sul lavoro. E ogni tanto mi incazzavo. Antonello Falqui lo mollai così, su due piedi, in uno studio tv, 20 minuti prima di andare in onda».
Come andò?
«Avrei dovuto cantare La storia di un ricordo di Gino Paoli. (La intona: “Una porta che si chiude, il tuo viso che sparisce”). Una canzone drammatica. Prima di me doveva esibirsi la gallese Shirley Bassey. Sa come sono provinciali gli italiani, no? Quando arriva uno dall’America o dall’Inghilterra si sciolgono: “Ah, divina” e non capiscono più niente. Aveva un pezzo triste anche lei e a un tratto Falqui mi si avvicina: “Dovresti cambiare canzone”, dice. Non replico. “Benissimo”, dico ai musicisti. “Facciamo Senza fine”, tre minuti, rapidi e poi andiamo a casa. A quel punto, Falqui chiama la pausa a tradimento. Allora mi sono incazzata: “Esterofilo di merda”, gli ho detto e mi sono chiusa la porta alle spalle. Lui era sconvolto, agli amici comuni diceva: “Ti rendi conto? Mi ha dato dell’esterofilo di merda”».
Falqui ebbe una celebre storia d’amore con Mina.
«Scapparono insieme, ma la fuga durò poco. Si è parlato a sproposito della nostra rivalità, ma non c’è mai stato antagonismo e a me Mina era molto simpatica. La nostra diversità mi è servita da propellente. Io pudica, lei tutta allegra e spumeggiante. Agli inizi era straordinaria, dopo meno. Era più distaccata e si vedeva».
Mina vive in Svizzera da decenni.
«Credo che all’inizio l’allontanamento fosse di natura fiscale, perché se fosse tornata le avrebbero tolto anche le mutande. Poi forse ha capito che non farsi vedere rendeva eterni e trasformava in miti. Penso che nella distanza sia felice».
Chi ha conosciuto di felice?
«Hugo Pratt. Ti sedevi davanti a lui e negli occhi blu, ma di un blu profondo, aveva tutto l’atlante. Possedeva ironia, spirito, una cultura folle, e un sincero amore per Stevenson perché era un ragazzo selvaggio anche lui. Un uomo stupendo. Gli dicevo “Ma come sei grasso” e lui, in veneziano: “Ciò, el magnar, el bever, le donne. Senò seria magro come un termometro”. Abbinava l’erotismo e le donne ai piaceri del cibo e del vino. E non sbagliava mica, sa?».
Altri uomini stupendi?
«Lucio Dalla. Lo adoravo. Più grande di Battisti, di De André, di Gaber che pure era grandissimo e superiore a Fabrizio. Dalla era il più grande di tutti. Intelligenza suprema, senso della tristezza portato all’estremo, ironia assoluta, vocalmente poi, una spanna sopra tutti gli altri».
Gli antipatici? I mediocri?
«Mediocri un’infinità. Come disse Umberto Eco a suo figlio prima di andarsene: “Quando starai per morire capirai che hai passato la vita circondato da deficienti”. Antipatici, diceva? Tom Jones. Così tamarro, così tremendo. Non lo sopportavo. Se vuole, posso parlarle dei simpatici. Del magnifico Ron o di Patty Pravo. È matta come una capra, mi diverte alla follia, è meravigliosa».
Pensa mai alla morte?
«Siamo appesi a un filo, può capitare a chiunque, in ogni momento. Bisogna cercare di ritagliarsi un po’ di serenità interiore. Quando penso alla morte penso al mare».
Perché?
«Perché il mare ti porta via».